Messa crismale del Giovedì Santo

A NOI TOCCA DEDICARCI ALLA PREGHIERA E AL MINISTERO DELLA PAROLA
 
  
OMELIA DELL’ARCIVESCOVO DI TORINO, MONS. CESARE NOSIGLIA, ALLA SANTA MESSA CRISMALE
(Torino, cattedrale, Giovedì Santo 29 marzo 2018)
A NOI TOCCA DEDICARCI ALLA PREGHIERA E AL MINISTERO DELLA PAROLA
 
 
La Chiesa, in questo Giovedì Santo, si raccoglie nel cenacolo per far memoria dei grandi doni di amore che Gesù le ha lasciato in quell’atto supremo della sua vita, quando ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli: il sacerdozio, l’Eucaristia, il comandamento nuovo della carità.
Sono tre aspetti dell’unico mistero pasquale che Gesù riassume nel segno sacramentale del suo Corpo donato e del suo Sangue versato. Il sacerdozio, infatti, nasce dall’Eucaristia e viene istituito per perpetuare nei secoli il memoriale della Pasqua del Signore a vantaggio di tutti i suoi discepoli in tutti i tempi. Anche la carità nasce dall’Eucaristia e mostra quanto il pane spezzato testimoni quell’amore infinito del Salvatore, che, lavando i piedi ai suoi discepoli, comanda loro di fare altret-tanto, per mostrare al mondo che si amano come lui li ha amati.
Protagonista di questo mistero, che si riattua nella Chiesa, è Cristo, sommo ed eterno sacerdote, unico mediatore tra Dio e gli uomini, fonte prima di salvezza e di carità. Partecipi, per vocazione, di questo sacerdozio, come battezzati e, sul piano ministeriale, come presbiteri, rendiamo grazie al Si-gnore, oggi in particolare, per un dono, che ci sovrasta e di cui non siamo stati e non saremo mai pienamente degni. Eppure, per grazia siamo quello che siamo e la sua grazia in noi non è stata vana, avendoci resi con-protagonisti con lui dell’economia della salvezza, che continua a compiersi nella sua Chiesa.
La prima lettura ed il Vangelo di questa Messa crismale, come anche le stesse promesse sacerdotali, che rinnoveremo, accentuano quest’unitaria e complementare radice, da cui traiamo il nostro essere presbiteri, il nostro ministero. Il mandato ecclesiale risponde alla volontà di Cristo e realizza, in concreto, oggi e per noi, la sua chiamata e la sua scelta. Esso comporta degli impegni precisi, che ci devono sempre rendere consapevoli del nostro compito di servizio, mai disgiunto da un rapporto di stretta comunione con gli altri presbiteri e con il vescovo. Un prete può realizzare opere meravigliose e può essere osannato dai suoi fedeli, ma se non vive con l’umiltà di chi sa che tutto è sottoposto al giudizio di Dio e a quello del suo vescovo, al quale ha promesso rispetto e obbedienza, batte l’aria e distrugge, con il suo orgoglio e la sua presunzione, quanto di buono ha fatto. Senza comunione, ogni opera nella Chiesa è come un pugno di foglie secche bruciate dal fuoco. Senza comunione, il nostro ministero è come un fiume che finisce nel deserto. Da qui, la necessità di verificare sempre con realismo e senza scusanti il nostro ministero di pastori su quello di Gesù e sulle indicazioni che la Chiesa ci offre negli insegnamenti ed orientamenti del suo Magistero.
Dice l’apostolo Paolo: «Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi» (2Cor 1,24). È un’espressione chiara, ma anche non facile da attuare. Veniamo da una stagione ecclesiale in cui il prete era il “tuttologo” e il perno attorno cui tutta la comunità e tutta la pastorale ruotavano. Egli riassumeva in se stesso ogni carisma e ministero ecclesiale. Questo è tanto vero, che anche oggi, quando una parrocchia resta senza prete residente, la gente è sconcertata e protesta, ritenendo di essere abbandonata. D’altra parte, l’autorità del prete è venuta meno sul piano sociale ed egli non è più considerato la persona da cui andare per ottenere favori politici o economici o vantaggi, comunque, materiali. Il clericalismo, tuttavia, è sempre duro a morire e risorge per altre strade, che vediamo emergere anche tra noi.
In questo contesto, diventa decisivo ricollocare il presbitero al suo giusto posto in una Chiesa che è comunione e dove la ministerialità, proprio in forza del sacerdozio comune, si espande, per cui in tanti ambiti pastorali è necessario l’apporto corresponsabile del laicato e delle altre vocazioni reli-giose. Al presbitero tocca svolgere quei compiti ministeriali, che gli sono propri e assolutamente in-dispensabili alla comunità, alla quale egli, in quanto pastore, padre e maestro, è chiamato ad assicurare.
 
«A noi – dicono gli Apostoli – tocca dedicarci alla preghiera e al servizio della Parola» (cfr. At 6,4). La preghiera è anzitutto la celebrazione dell’Eucaristia, il più efficace ed importante compito del presbitero, perché fonda il suo servizio nella comunità: offrire al popolo di Dio il pane della vita, memoriale del sacrificio del Signore e nutrimento di fede, di speranza e di carità; celebrare la Pasqua del risorto, quale fonte di comunione ed unità.
La Chiesa fa l’Eucaristia e l’Eucaristia fa la Chiesa, dicevano i padri. Analogamente possiamo affermare: il sacerdote fa l’Eucaristia e l’Eucaristia fa il sacerdote, lo conforma a Cristo e lo rende vittima e sacrificio per la salvezza dell’umanità. L’Eucaristia ci interpella e ci sfida nel profondo del nostro essere presbiteri e dovrebbe condurci a un costante rinnovamento spirituale e ministeriale, anzitutto per noi stessi e poi anche per le nostre comunità. La concretezza di questo riferimento ci fa comprendere quante delle nostre Messe sono celebrate solo per motivi rituali o per rispondere alle pressioni del piccolo gruppo di fedeli, che vuole soddisfare il precetto a quell’orario, nella loro chiesa, senza la consapevolezza di quell’unità e carità che esige l’Eucaristia.
 
Dall’Eucaristia scaturisce la carità che è il Vangelo, predicato e vissuto. Questa è infatti per il presbitero la prima forma di carità: spezzare il pane della Parola di Dio. Papa Francesco dedica un ampio capitolo della Evangelii gaudium, in cui parla dell’omelia, per sottolinearne l’importanza. Il rispetto dovuto alla Parola esige tempo di preparazione e fedeltà ai testi sacri, rifuggendo da interpretazioni o considerazioni molto personali, che formano una barriera che impedisce alla gente di gustare e accogliere nel cuore la Parola di Dio e non la nostra.
Meditiamo attentamente le parole che oggi l’apostolo Giovanni ci rivolge nel passo del libro dell’Apocalisse. Gesù Cristo è «il testimone fedele» (1,5). Testimone, perché fedele al Padre: «io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire» (Gv 12,49); testimone, perché rivela l’amore gratuito di Dio verso l’umanità e dunque la sua parola è sempre positiva e incoraggiante, fonte di fiducia e di speranza per tutti, com-presi i peccatori e i più lontani dal Tempio; infine, testimone perché dona la sua stessa vita per confermare il suo Vangelo.
 
Desidero, in conclusione, esprimere, come ogni anno, il mio ricordo e vivo ringraziamento ai presbiteri anziani e malati, che non sono oggi tra noi in questa celebrazione, ma che sono uniti con la preghiera e l’affetto, che ci lega nel nome del Signore e nel comune sacramento dell’Ordine. Un vivo augurio lo rivolgo anche a tutti i presbiteri che celebrano l’anniversario “tondo” della propria ordina-zione. Anch’io, come sapete, celebrerò con rinnovata riconoscenza il cinquantesimo di ordinazione. Ai confratelli missionari “fidei donum” va il nostro ringraziamento e la viva amicizia, mentre li ricor-diamo uniti a noi nella comunione presbiterale e li seguiamo, con affetto, nel loro prezioso servizio sulle frontiere avanzate della missione.
 
A voi tutti, fratelli e sorelle, religiose e laici, che partecipate a questa celebrazione, chiedo di pregare il Signore affinché continui a seminare nel cuore di tanti giovani la chiamata al sacerdozio e fortifichi quelli, che lui ha scelto, con il suo Santo Spirito, infondendo nel loro cuore la gioia di Dio e del suo perenne amore.